Eugenia Paulicelli analizza “Moda e cinema in Italia, dal muto ai giorni nostri”

La Voce di New York

Scritto da Irene Ranaldi

“Cos’è Roma? Qual è Roma? Dove finisce e dove comincia Roma? Roma sicuramente è la più bella città d’Italia – se non del mondo. Ma è anche la più brutta, la più accogliente, la più drammatica, la più ricca, la più miserabile. Il cinema ha molto aiutato a farla conoscere, anche a chi non ci vive. Ma bisogna stare attenti: il gusto neorealistico che ha presieduto ai film su Roma è troppo imbevuto di bozzettismo, di particolarismo dialettale, di ottimismo umanitario, di crepuscolarismo: tutte cose che non potranno mai dare, col loro tono medio, grigio o roseo, l’atmosfera di questa città che è così drammaticamente contraddittoria. Le contraddizioni di Roma sono difficili a superarsi perché sono contraddizioni di genere esistenziale: più che termini di una contraddizione, la ricchezza e la miseria, la felicità e l’orrore di Roma, sono parti di un magma, di un caos. Per lo straniero e il visitatore Roma è la città contenuta entro le vecchie mura rinascimentali: il resto è vaga e anonima periferia che non vale la pena di vedere”

(Pier Paolo Pasolini, Il fronte della città in “Storie della città di Dio- Cronache romane 195-1966, Einuadi, Torino 1955).

Così scrive il giovane Pasolini, prima di esordire con i suoi film all’inizio degli anni Sessanta definiti “la trilogia del sottoproletariato romano (“Accattone”, “Mamma Roma”, “La ricotta”) e prima di incontrare Federico Fellini che con “La Dolce Vita” stabilisce un legame indissolubile tra moda cinema e città.

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Queste sono le tre dimensioni che il libro di Eugenia Paulicelli – professore ordinario al Queens College e Graduate Center della City University of New York dove ha fondato la Concentration in Fashion Studies e autrice di numerosi studi sul rapporto tra moda e fascismo, moda e globalizzazione, industria della moda e anche collaboratrice della voce di New York – analizza in cinque corposi capitoli e in una ricchissima bibliografia in Moda e cinema in Italia. Dal muto ai giorni nostri, Bruno Mondadori, Milano 2020.

La potenza del cinema, come scrive Pasolini, è sia pedagogica sia critica: è difficile cogliere le contraddizioni della città.

Ed è qui che l’abito, la “città indossata”, può diventare una leva interpretativa per demistificare la realtà e rappresentarla.

Nelle analisi della periferia romana sui generis in cui da anni, come ho già avuto modo di parlare in questa testata, accompagnando molti romani, a volte nel quartiere romano del Tuscolano parlando del film “Mamma Roma” invito a riflettere i partecipanti sull’abbigliamento degli attori. Nella scena dell’arrivo al Tuscolano di Anna Magnani col figlio Ettore, nei primi anni Sessanta un quartiere medio borghese di nuovissima costruzione, provenendo da Casa Bertone, quartiere operaio sulla via Tiburtina, la diseguaglianza di classe salta agli occhi. Gli amici di Ettore di Casal Bertone nella scena precedente hanno le “polacchine”, pantaloni magliette. I ragazzi “bene” del Tuscolano indossano la camicia, la cravatta, mocassini e pantaloni col risvoltino. L’attesa per l’ascesa sociale è contenuta tutta nelle tre mila lire che Mamma Roma darà a Ettore “per offrire qualcosa ai tuoi nuovi amici”; perché adesso ti dovrai vestire come loro.

Nel capitolo dedicato a Roma Hollywood sul Tevere, Paulicelli sottolinea il ruolo che ha la moda “nel definire una narrativa dell’esperienza urbana e del desiderio” (p.122) alla base del processo di branding nella città che per Roma, capitale di un paese da poco uscito dalla Seconda guerra mondiale, significò una rinascita e una attrazione di capitali e di attenzione che ne fecero a tutti gli effetti la capitale del cinema, pur essendo questo primato, sottolinea Paulicelli, condiviso tra molte città italiane grazie a quello che chiama il “rapporto sinergico tra moda e cinema” sintetizzato nel marchio garanzia di qualità del Made in Italy.

“Sin dalla sua nascita, alla fine dell’Ottocento, il cinema ha costruito una vetrina virtuale in cui gli oggetti erano esibiti e desiderati. Infatti, le nuove mode così lanciate erano disponibili ai grandi magazzini che avevano rivoluzionato le abitudini dei consumatori creando nuovi spazi e nuovi comportamenti. Ma il costume nel cinema non ha solamente preso in prestito dall’alta moda, ha anche a sua volta ispirato la creazione di nuove mode” (p.5)

Un libro davvero utile anche per capire, mutuando dall’autrice questa ultima riflessione, il fenomeno social delle/dei fashion blogger su Instagram dove il “messaggio” e lo storytelling non è il personaggio ma l’abito o l’accessorio fashion che indossa, allo scopo di avvicinare milioni di follower potenziali consumatori.

Il percorso del saggio parte dal cinema muto e, richiamando le teorie degli studiosi del cinema Elsaesser e Hagner, sul rapporto tra cinema e percezione del corpo collocato in uno spazio che si estende dalla sala cinematografica all’architettura e dove il contesto nel quale l’esperienza filmica viene vissuta, ha un ruolo molto importante.

Ricco di spunti di riflessione il capitolo su moda e cinema sotto il fascismo, in cui l’autrice mette bene in evidenza la pervasività nella vita quotidiana della retorica del regime che fece del cinema una potente arma di consenso con l’istituzione dell’Istituto Luce.

Una vera sorpresa per me, che racconterò ai nostri soci di Ottavo Colle www.ottavocolle.com nelle nostre passeggiate nel quadrante Prenestino-Casilino a Roma e all’ex fabbrica Snia Viscosa dove il regime faceva produrre il materiale autarchico rayon (seta artificiale), è stato apprendere grazie al libro di Eugenia Paulicelli che Michelangelo Antonioni col documentario “Sette canne, un vestito” (1948) girato presso la Snia di un paese della provincia di Udine, ha lasciato un traccia indelebile di queste che sono state  fabbriche che hanno rappresentato una parte notevole di vita operaia italiana.

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